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In un forum che tratta di salute e malattie, può succedere che improvvisamente qualcuno offra la soluzione tanto agognata, via mail o via messaggio privato.
DIFFIDATE sempre, controllate, ricercate e chiedete. Chiedete ad altri foristi se per caso conoscono questo prodotto, chiedete se esistono dei test e delle testimonianze attendibili.

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Domanda Manuale di controeducazione

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11 Anni 7 Mesi fa #12795 da lord_vivec
Risposta da lord_vivec al topic Re: Manuale di controeducazione
@ Deseb: grazie per aver condiviso la tua esperienza.
Quella è una situazione che in realtà TUTTI vivono, non hai idea di quante lamentele del genere leggo ovunque... solo che non tutti hanno la consapevolezza di cosa stia realmente succedendo, a loro e al mondo che li circonda!!! Chi ne ha la consapevolezza, ci soffre appunto perchè se ne rende conto e si sente le "scarpe strette". Ma chi non cel'ha ne è COMUNQUE vittima!
La maggior parte delle persone infatti ci soffre lo stesso per quelle puttanate sociali, per l'oppressione del "controllo sociale" (dove vieni valutato ed eventualmente sminuito a seconda di quanto aderisci all'ideologia e ai valori dominanti) ma non se ne rendono neanche conto. Però sono dinamiche che quelli che accettano "il sistema" sociale, subiscono lo stesso, anche se magari le considerano immanenti alla società stessa (cioè considerano "normale" che uno si debba omologare!)
Se uno non se ne rende neppure conto e considera normale pure il disagio che queste situazioni gli fanno provare, meno che mai potrà liberarsi di queste programmazioni mentali imbecilli, e ne sarà vittima inconsapevolmente.
ad es. uno che dice "io non ho l'Iphone quindi sono uno sfigato. E' ovvio che gli altri mi rifiutano" Cioè non ci va neanche a PENSARE che chi sbaglia, sono quelli che considerano il consumismo esibito come un "valore"! E quindi considera GIUSTO e normale pure il fatto che viene considerato sfigato... visto che lui stesso considererebbe sfigati gli altri per lo stesso motivo!
Vedi, questo è il senso del messaggio di autori come Wayne Dyer. Che poi "qualcuno" (che tu sai) usi i suoi insegnamenti in maniera arbitraria ed egoista, questo è un'altro discorso.
Si dice che un libro ha due autori, quello che lo scrive, e quello che lo legge.

Clara ha scritto: Grazie ragazzi!Le vostre risposte fanno sentire "meno soli" e quando ci si sente meno soli si soffre anche di meno, perchè sapere che quel qualcosa che io chiamo "intelligenza vitale" emette ancora qualche segnale in giro, riscalda il cuore e fortifica.
Vi ricordate nel film Papillon, quando lui riesce ad evadere buttandosi in mare?
Dice "Maledetti, sono ancora vivo!"...

è esattamente quello che ho sentito (prima ancora che pensato), leggendo quell'articolo: mi sono sentito meno solo!
Bella la metafora, direi che ci azzecca molto con la nostra situazione ;)

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11 Anni 7 Mesi fa #13124 da Clara
Risposta da Clara al topic Re: Manuale di controeducazione
Idee inattese e istruzioni necessarie per rovesciare credenze ossificate, ideologie aberranti e poteri inamovibili e ritrovare l'appetito bruciante, sessuato e nervoso di capire, di fare e di pronunciare il violento sì alla vita che le nostre diseducazioni ci hanno intimato di tacere
lunedì 24 settembre 2012
Enjoy your lesson (2)

Caro studente che vai a lezione carco di libri e parco di speranze, che cosa puoi fare tu perché quel teatro dove si consuma il tuo “sequestro educativo” diventi una possibile fonte di godimento? E non di polverizzazione della tua pazienza e di triturazione delle tue fantasie? Anzitutto puoi mettere in scena il tuo desiderio, postularlo, manifestarlo. Non andare lì come si va dal dentista o a cena dai parenti, annoiato e con quel senso di minaccia che effettivamente la scuola trasmette (già a partire dai suoi muri gaiamente addobbati, dalle sedie lussuriose e dagli arredi pieni di buon gusto, si fa per dire). Vacci con l’eccitazione e il pungiculo di un appuntamento. Certo, so che ti vai a infilare dentro un’aula grigia con compagni dai calzini marroni che tu non hai scelto. Questo è vero ma prova a ribaltarlo. Fai una simulazione, credici. Fatti bello/a, datti una profumata, infilati una sciarpa sgargiante che calamiti l’attenzione. Porta la tua faccia più entusiasta e con essa introduciti nell’aula che sa di candeggina con l’aria di chi chiede: è qui la festa? Porta il tuo corpo dentro l’aula, con il suo flessuoso andamento animale, porta la tua giovinezza, non lasciarla fuori dalla porta, non esibire solo la tua depressione e la tua noia. Di tanto in tanto sorridi alla professoressa di matematica, portale dei fiori. Porta dei fiori anche alle tue compagne o ai tuoi compagni. Arriva con la ferocia del desiderio di far saltare le righe. Proponi sempre qualcosa, bacia tutti. Abbraccia il professore, ne sarà elettrizzato, resterà senza fiato. Vigila soprattutto. Non permettere che stritolino il sapere dentro la morsa dei loro sussidiari. Porta libricini odorosi, gonfi di foglie e di vecchie cartoline. Falli girare. Porta del cibo succulento, non solo per te ma per fare festa. Chiama gli altri ad esigere il proprio tempo, a stanare la cultura fino a che non inizia a perforare i muri. Reclama di uscire, di vedere i luoghi, esplorare i cantieri, entrare nelle botteghe, decifrare i misteri delle pasticcerie, fotografare e filmare il mondo e ritrovarlo solo dopo dentro quell’aula che si sarà trasformata in un laboratorio alchemico prufumato di ambra e di bergamotto. Chiedi che ci siano sensi e colore dappertutto. Quando vuoi azzittire il professore, fai partire una musica dolcissima dal tuo amplificatore personale. E danza. Avvicinati ai compagni, alle compagne, con fare seducente, e accendi i loro ormoni. Perché no? Se poi otterrai una sanzione, sarà stato per amore. Una nota disciplinare sarà una lieta pena per questo atto bellissimo di “terrorismo poetico”. Sei tu che puoi impedire lo scempio del sapere, la sua mortificazione e, con essa, la mortificazione del tuo corpo e del corpo senziente che formi con i tuoi compagni. Riscattali con la rivendicazione dell’appropriazione profonda delle materie, incarnata in azioni sceniche, in recitazione, in corpo a corpo con gli oggetti ancora vivi e vivibili. Sii manifestazione vivente a partire da te stesso/a, nei tuoi vestiti, nella tua voce, nei tuoi gesti, sii desiderio e poesia in azione. Non permettere a nessuno di abbrutirti con la mediocrità di una lezione malpreparata, con testi scolastici pachidermici e inutilizzabili, con lo stridore dei gessi sulle lavagne o con i rituali irricevibili dell’interrogazione e del compito in classe. Chiedi che non si valuti, ma che si restituisca, si baratti il sapere con un ringraziamento, quando lo merita. Chiedi semmai che si valutino solo i comportamenti che scaturiscono da un coinvolgimento profondo, che si valuti solo su richiesta, di chi impara, non del sistema paranoide che soffoca e inchioda ogni cosa ancora in vita. Imponi l’esperienza, le storie, la foresta dei simboli e le stratificazioni dell’immaginario, chiedi materia palpitante, odorifera, palpabile, gustabile, amabile. Installa la tua inequivocabile presenza fragrante e immensa, irriducibile, al centro di uno spazio che può diventare scrigno di incandescenze, firmamento scintillante, oltrenero sottomarino, folto boschivo, pioggia fitta e inebriante, labirinto sotterraneo, bagno di fango tiepido, fonte di acqua luminosa e carezzevole. Sii l’attore principale, rifiutati, ostacola l’idiotizzazione perseguita da chi entra in aula solo per timbrare il suo destino di cùlculo del sistema. Lo puoi fare con la tua energia ancora intatta. Ribalta i ruoli, spruzza il tuo desiderio come un gatto nero e affamato sulle pareti e sui banchi, esigi l’intensità, la densità, gli orizzonti infiniti!

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11 Anni 6 Mesi fa #13222 da lord_vivec
Risposta da lord_vivec al topic Re: Manuale di controeducazione
bah, io quando andavo a scuola pensavo solo al momento che sarebbe finita!
Ma tanto ora non è finita per niente, la scuola è solo l'inizio della fine...

Però, quest'intervento mi ha fatto tornare in mente un mio amico, anarchico, che veniva a scuola portandosi la roba più improbabile (come lo "squagliafumo", dalle ovvie finalità... nello zaino aveva sempre quegli strumenti da giocoliere, mi pare si chiamassero i "diablo"). Una volta durante la lezione di matematica si mise a leggere, non so mi pare Bakunin. La prof disse una cosa tipo "non stai seguendo la lezione?" E lui tipo "si, sto imparando come la pensava Bakunin". Bei tempi... (si fa per dire)
Fu la prima persona (e una delle pochissime, in tutto saranno stati 4 o 5) con cui riuscivo ad avere dialoghi di un certo spessore, che andavano ben oltre il mero "femmine, macchine, vestiti e soldi" facendo finta che mene importasse davvero...

Io non ho mai avuto il coraggio di fare come lui, e in fondo non lo faccio nemmeno oggi, che tendo a rimanere in disparte. Un pò me ne pento, di non averlo fatto quando potevo. Ma ciò che mi preoccupa di più è il presente, prima ancora che il futuro...

Ma a proposito di questo fatto, tornando all'altro libro (l'elogio della fuga) io non ho capito bene come si fa a "fuggire" senza andare in depressione. Lo sapresti dire a parole tue?

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11 Anni 6 Mesi fa #13977 da Clara
Risposta da Clara al topic Re: Manuale di controeducazione
domenica 14 ottobre 2012
(Ritorni): Ego add-io

Sappiamo ormai con discreta sicurezza che la storia non procede diritta e che comunque dovremo abituarci alla convivenza di tempi asincroni, di discrasie e di stratificazioni complesse nelle manifestazioni future dell’umano, il che peraltro ci consentirà di sperimentare forme di vita multiple e contaminate, sia per radicamento, sia per profilo. Sappiamo altresì che una reversione pura e semplice, come forse qualcuno auspica, non è davvero possibile . Non possiamo resuscitare il fantasma di un io dominatore e legislatore, eroico e progressivo, mosso dalle fantasie faustiane e prometeiche di una definitiva padronanza del mondo. E credo, in buona compagnia, che non valga la pena di dolersene. In compagnia di buoni profeti anche non più recenti, da Kafka a Benjamin, da Deleuze a Hillman, possiamo guardare al nuovo panorama contemporaneo, senza per questo dimenticare che ogni epoca è inevitabilmente segnata dalle sue devianze e dai suoi orrori, con maggiore benevolenza e più fiducioso ascolto immaginativo. Questa postmodernità, come è stata definita con buona approssimazione, è un tempo attraversato da fermenti molteplici e spesso in conflitto, da una pluralità di possibili. Ma è certo un tempo che si è lasciato alle spalle, in larga misura, i miti del passato, e anche le sue certezze. Un tempo dove è molto difficile credere in qualcosa di permanente e duraturo. La morte di Dio è oggi un fatto, non è più solo un’intuizione filosofica ma qualcosa che pervade la vita sociale, qualcosa che i giovani trovano come un dato certificato dal funzionamento sociale stesso, dal trionfo definitivo di un’esistenza appiattita sul pragma, dominata dal puro chronos, governata in profondità dal fattore economico ( che, va ricordato, è anche sempre un fattore sperequativo: al narcisismo dell’occidente risponde la lotta per la sopravvivenza di gran parte del mondo condannato ad una povertà non facilmente superabile), dall’astrazione amorale dello scambio e del profitto, ma anche radicata come mai forse lo è stata nella storia dell’occidente, nell’immanenza e nella terrestrità. Questa compresenza, certo drammatica, apre uno scenario che va interrogato con grande radicalità e anche con un certo disincanto, senza nostalgìe e senza ottimismi ingenui. E anche con l’attenzione fenomenologica che un orizzonte davvero inedito manifesta e su cui dunque invita a calibrare letture pronte a porre con forza in discussione categorie, concetti, modelli davvero ormai inservibili. La fine del padre e di Dio apre scenari forse disturbanti ma anche affascinanti. Oggi non è tempo per istituire nuove sorveglianze e punizioni, per una nuova morale sanzionatoria, per famiglie o scuole normative. Oggi occorre probabilmente un altro atteggiamento. Qualcosa che potrebbe provvisoriamente chiamarsi un “rigore della debolezza”, un’attenzione partecipativa alla fluidità delle forme di vita e alla loro proliferazione molteplice e reticolare, alla loro indole anche eccessiva e trasgressiva. Un’accoglienza, una ricettività, una conversione conoscitiva non giudicante, ricca di immaginazione, mobile, all’insegna di un approccio al reale che sappia avvertire l’avvento di una segnatura epistemologica aperta, contraddittoriale, tensionale. Al posto del vecchio io angosciato e paranoico, si fa strada forse un “io poetico”, minore, immaginale, che accetta di “divenire infante, animale, stella”, come voleva Deleuze. Non c’è più posto per il vecchio soggetto platonico che divide il giorno dalla notte e le idee eterne dalla materia corruttibile, e neanche per quello già più timidamente arroccato nel suo schematismo trascendentale dell’orologiaio di Konigsberg. Men che meno per lo spirito autocomprendente di Hegel, per il suo inveramento storico nella potenza di un Occidente arrogante e imperialista, per quanto consapevole del “negativo” che lo attanaglia. E neppure probabilmente per il ritorno della conversazione felice del giardino epicureo o del duro cammino di scoperta di sé socratico. Forse la nostra modernità ha sviluppato una bizzarra sopravvalutazione dell’individualità umana, un’inflazione, di cui i grandi romanzi di formazione tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 hanno portato impressa l’indelebeile traccia. Un individuo ampio, esteso, profondo, allagato dalla molteplicità dei suoi interessi e della sua cultura, attorniato dalla montagna dei suoi ricordi e delle sue imprese, il tutto cumulantesi in profili inconfondibili, insostituibili, irripetibili. Il che ha reso all’individuo stesso tanto ingrato il cedere all’oblìo, alla dissoluzione, al tramontare. Individui talmente affamati di vita da rendere vertiginosa la piramide iridescente delle proprie vite. A quest’immaginario aristocratico e romantico, inevitabilmente sopraffatto da una sensibilità tragica e malinconica, la contemporaneità oppone la sciatteria apparente di una vita senza traccia, fungibile, affondata nella serialità e nella mescolanza. Una vita però forse meglio integrata nella totalità di un mondo più interconnesso, più integrato, per paradosso più simile a quell’universo premoderno in cui l’affermazione di sé non era una destinazione desiderabile, era peccato o manifestazione di colpevole arroganza. Oggi è il tempo del flusso e della rete, delle intensità e di una materia inafferrabile, come ci rivela giorno dopo giorno la ricerca microfisica. L’uomo contemporaneo, ciò che sta venendo alla luce, è non più il fulcro di un organismo ben regolato dalle leggi dell’identità, quel microcosmo capace di riassumere in sé l’intera costellazione deglle analogie cosmiche, né l’identità fondata sulla presenza e sul discorso che ha occupato la scena di tutta la metafisica occidentale. Non vi sono più Sfingi da sfidare all’orizzonte e forse neppure più uno specchio onnipotente cui attribuire tutta l’estraneità del proprio volto. Semmai campi d’insistenza, flussi di energia e di forze che si dissipano e che si attraversano. L’io di oggi è un io diffuso, un io “quantico”, ambiguo nella sua stessa struttura materiale, onda e particella, vivo e morto come il gatto di Schroedinger, partecipe delle molteplici influenze che lo disseminano e che lo trasformano, infinitamente sensibile, un io immaginale, come piace definirlo a James Hillman, notturno e infante, parente del sogno, corpo risonante di una magmatica armonia e disarmonia su cui prova continuamente e insensibilmente ad accordarsi. Più figlio di Proteo e della sua sovrana cangianza che di Apollo e di Teseo, più dionisiaco e orfico che marziale o saturnino, l’io di oggi oscilla tra materia e immateriale, al confine tra il virtuale e il reale, in una zona intermedia che ha i caratteri della flessibilità e dell’iridescenza e che, forse, sta sviluppando una nuova corporeità, più sottile, una carnalità ipersensibile capace , nel tempo, di soggiornare nel caos, nel divenire, nel mutamento certo molto meglio di quel vecchio personaggio donchisciottesco che ambiva a soggiogare la terra. Forse più cinico e strumentale, talvolta, ma anche politeista e non letterale, l’io di oggi e domani sembra bisognoso di sfuggire alle vecchie ipoteche totalizzanti e integratrici, a tutti i maiuscoli dettati dalle metafisiche che lo hanno preceduto. Non più l’io freudiano assediato dall’angoscia, non certo l’io inflazionato di D-io, ma nemmeno l’io dell’od-io e delle grandi passioni, neppure l’io di m-io, l’io del possesso e del domin-io. Un io senza metafisiche, io microfisico e pulviscolare, io desinenza, suffisso mobile e musicale, l’io di obl-io, di desider-io, di add-io.

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11 Anni 2 Mesi fa #17649 da Clara
Risposta da Clara al topic Re: Manuale di controeducazione
venerdì 8 febbraio 2013
Non c'è più via di fuga

Le fughe dei ragazzi scuotono il benpensiero. Nulla di nuovo, da questo punto di vista, solo, talora, nuove parole. Gli psicologi, al solito, arroccano sulla famiglia, unico riferimento nella loro mappa societaria. Se i giovani scappano di casa sarà per trarre riconoscimento, per dire ai genitori che ci sono, che esigono più attenzione. Tutt’al più forse, la fuga, sarà un grimaldello per estorcere più paghetta, più tempo su internet, l’ultimo gadget. La litanìa sulla gioventù appesa al nulla e alle mamme è sempre sulla bocca dei nostri curatori di fallimenti. E sarà pur vero, in qualche caso. Qualche filosofo della letteratura parla di presenza che si propone con l’assenza. E certo assentandosi ci si presentifica, come in amore. Ma forse non è necessario scomodare l’ontologia dell’assenza né lo tzim-tzum (la teologia cabalistica del dio che scompare per manifestarsi). La fuga è un archetipo della giovinezza, una necessità e un’iniziazione di cui molti hanno avvertito il richiamo, chi prima e chi dopo. A cambiare, di fronte alla trasgressione (del confine) è semmai la retorica della recuperazione, per usare un termine un po’ démodé. Ma anche la realtà della fuga, una fuga che si consuma nel mondo della simulazione. Io credo che i ragazzi si sentano alle strette, di tanto in tanto, nella prigione dorata (oggi dorata dal nuovo sussiego genitoriale, la famiglia affettiva e sempreaddosso), nel tessuto compatto della securizzazione. La voglia di lacerare quella materia invisibile, fatta di prevenzione, rischiaramento a colpi di sincerità e di trasparenza, di controllo e sorveglianza, proprio nel tempo della sua massima applicazione, potrebbe essere una risposta all’ansia di scappare. Voglia di esporsi ad un aperto, ad un fuori, ad uno spessore del reale contro il quale urtare nella nudità della propria pelle. Voglia di rinunciare alle dieci telefonate obbligatorie alla famiglia, al rendiconto, al balletto del vogliamoci bene. Peccato che il fuori sia scomparso, nel frattempo. Dove puoi cercare into the wild oggi? Non c’è cargo o treno che parta per paesi lontani e diversi né la compagnia di saltimbanchi nomadi o di fuorilegge di cui sperimentare l’eccesso e la seduzione. Tutto è uguale a tutto, là fuori. Forse è questo il motivo della brevità di queste fughe. Fuori c’è il dentro, e viceversa. Tutto è attenuato, indebolito, comunque sorvegliato. Come fuggire nel paese delle telecamere di servizio, della localizzazione tramite cellulare, dell’uniformazione compiuta e della delazione obbligatoria? Il mondo è una grande famiglia… Ogni sporgenza è stata smussata e fagocitata. Come nel Truman Show anche il fuggitivo contemporaneo corre verso un orizzonte che non c’è, a rischio di trovare la porta che lo farà cadere nel puro vuoto. Ma ben pochi arrivano fino a lì, a schiudere l’asola che si apre sopra l’oltre o, talvolta, l’inferno. Per spingersi fino a lì, occorre non solo il senso dell’avventura ma una disperazione insostenibile che il calore simulato del sistema di protezione e di manipolazione famiglia-scuola-consumo non permette che si manifesti davvero. Le fughe si arrestano prima, picchiando contro il muro di gomma delle infinite equivalenze, di un altrove dato per disperso, definitivamente. In barba a chi si beffava di Marcuse, oggi il mondo ad una dimensione è una realtà assoluta. Chi fugge sa cosa trova: il medesimo. Certo a volte una lacerazione nelle maglie compatte della recuperazione aprono a qualche abisso o a qualche inspiegabile ulteriorità: è il caso di quelli che non tornano più. Forse preda dell’orco, il sottosuolo “reale” dell’orrore e della sopraffazione. Oppure finalmente in viaggio verso il non dove, il luogo utopico di un’altra vita (im)possibile. Ma il più delle volte la fuga è un giro su se stessi, un turno sulla giostra del sempre eguale ed è un giro breve perché comunque il cane da guardia è molto più attrezzato di un tempo. E spesso alloggia dentro, inoculato dall’educastrazione. I giovani desiderano evadere, toccare il corpo del mondo, godere il loro ike notturno nei boschi ma impattano nel grigio compatto della cementificazione cui tutti siamo sottoposti, la cementificazione dei sogni e del futuro. E dove non cattura la polizia, c’è la psicoterapia pronta ad accoglierci nell’ultima simulazione. E’ l’anello di Moebius, ti sembrava due ma è uno, sempre lo stesso, che abbia il volto del genitore o del maestro, del prete, del poliziotto o del terapeuta. Non ci si allarmi troppo dunque. I ragazzi non si rassegnano, è vero, perlomeno alcuni tra essi, ma i loro sensori sono veloci e presto, per forza di cose, rieccoli a casa.
Pubblicato da paolo mottana a 01:56

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